Come ho smesso di sentirmi inadatto
Ho sempre lottato con la sindrome dell’impostore, ma ad un certo punto, qualcosa è cambiato
Sin da sempre ho avuto la sindrome dell’impostore.
– Oh no, un altro.
Sì, lo so, è banale, però aspè fammici arrivare.
Quando mi sono avvicinato al mondo della programmazione trovavo difficile tutto: i libri erano arabo e le persone che conoscevo, che appartenevano a quel mondo, erano estremamente quadrate ed era molto difficile avere uno scambio alla pari (letteralmente non capivo di che cosa accidenti parlassero e di quali stramaledetti problemi si lamentassero).
Banalmente: - Ehi! Come faccio a fare il tuo lavoro? - fiumi di nozioni da imparare, il mio sguardo che diventava sempre più vacuo.
Acuivano quel senso di “obiettivo impossibile” da raggiungere e sentivo sempre più di essere totalmente inadeguato per imparare a svolgere quell’immaginario lavoro dei sogni.
Ma mi piaceva, e questo era ciò che importava. Così frequentai un corso regionale (come programmatore web PHP) a Bagheria ed una mia compagna di corso mi fece scoprire un gruppo di programmatori: un Google Developer Group.
Agli eventi si parlava di tecnologia, programmazione e c’era un clima positivo e disteso: erano tutti lì per conoscersi, fare amicizia e imparare qualcosa.
Da questi gruppi raramente mi sono portato a casa lezioni importanti su come programmare o quale linguaggio usare, forse solo qualche spunto, qualche input, diciamo così. Continuavo comunque a sentirmi lontano anni luce da uno sviluppatore appena decente, ma ad un certo punto accadde una cosa.
Ad una delle Devfest, ebbi l'occasione di parlare con alcuni professionisti autorevoli e per me all'epoca erano semplicemente inarrivabili: poterci chiacchierare, farmi consigliare, per me valse anche di più dei preziosi talk che presentavano.
E così, parlandoci, le distanze si assottigliavano: in fondo eravamo persone, con esperienze diverse e potevamo imparare l'uno dall'altro.
Solo allora capii che l’unica cosa ad essere inadeguata era proprio il mio senso di inferiorità. Dopotutto non sono soltanto massa intrisa di inarrivabile conoscenza, ma individui appassionati che vogliono condividere momenti — di conoscenza, certo, ma anche di vita, di fragilità.
Questi eventi non sono solo preziose occasioni per imparare, ma per incontrare persone, creare connessioni e scambiare idee. Non vado alla community locale solo per acquisire nuove conoscenze, ma principalmente per il confronto: a volte con chi parla la mia stessa lingua, altre volte con chi mi spinge a vedere le cose da un'altra prospettiva. E se capita, mi lascio ispirare da qualche talk tecnico.
Ci vado perché mi sento parte di qualcosa.
Alcune community, spinte dai loro organizzatori, si scervellano per creare “eventi di forte impatto”. Ma mentre pianificano la prossima grande cosa, il gruppo dietro resta in silenzio per mesi — e intanto si spegne.
Certo, è bello partecipare a un evento ben curato, con relatori di spessore e incentivi pensati per coinvolgere.
Ma, per quanto mi riguarda, l’impatto più forte che una community può avere è semplicemente esserci. Per incontrarsi.